Il padre materno

Padre materno

Propongo di seguito un riadattamento di un articolo di carattere psicoantropologico uscito su “La Repubblica” del 9.3.2015 scritto da Maria Novella De Luca…a cui fa seguito un commento della nota sociologa Chiara Saraceno.
Si tratta di riflessioni interessanti sui cambiamenti che stanno avvenendo nella società dal punto di vista delle identita’, dei ruoli e delle funzioni genitoriali indipendentemente dal genere.

Sabina Scattola

Il padre materno

Affollano orgogliosamente le sale parto. Tagliano sicuri il cordone ombelicale dei loro attesissimo figli. Le statistiche italiane non li registrano ancora come massa, ma nemmeno più sotto la voce “avanguardia”. In America sono catalogati con la sigla “Hcd” (high care daddies), noi le decliniamo come “padri materni”, o “padri coinvolti”, ma anche “padri accudenti o egualitari”. Sinonimi di quella che è stata definita forse l’ultima rivoluzione antropologica: la metamorfosi del genitore maschio.
Un cambiamento così radicale che saggi e ricerche, oggi, provano a capire che tipo di famiglia e’nata dalla metamorfosi di questi padri. Quali sono stati gli impatti sui figli, quali gli effetti sulla vita di coppia e sulla sessualità.
Come affermano alcune ricerche e anche i saggi di due psicoanalisti Simona Argentieri e Gustavo Pietropolli Charmet, la rivoluzione in atto e di questi nuovi padri italiani esiste anche un dettagliato identikit. Lo tracciato di recente Tiziana Canal sociologa e ricercatrice all’ università di Madrid sulla base di oltre. seimila interviste a donne tra i 25 e i 45 anni. Ciò che emerge con chiarezza è che gli “high care daddies”sono uomini tra i 31 e i 35 anni con figli al di sotto dei tre anni, hanno mogli e compagne lavoratrici con titoli di studio alti e vivono nel centro nord. Questi “papà materni” (nell’88% dei casi) vestono e lavano i figli, naturalmente ci giocano, e li accompagnano a dormire la sera. Con la crisi economica molti padri lavorano di meno, e sono stati “costretti” a trascorrere questo tempo con i figli. Per poi invece  ammettere di averne scoperto la grande opportunità.

Ma quali sono le ombre? Gli elementi essenziali della figura paterna la forza, l’ autorevolezza, riescono a resistere e convivere con la tenerezza e l’accudimento? Domande a cui ha provato a dare una risposta con un saggio la psicoanalista Simone Argentieri nel libro “il padre materno” (Ed. Einaudi), in cura racconta i nuovi papà. Tra conquiste, perdite, incertezze. Scrivi Argentieri: ” tanti giovani uomini si stanno rivelando non solo perfettamente in grado di svolgere le funzioni materne primarie, ma anche di trarne un profondo e intimo  appagamento, a vantaggio dei più piccoli per i quali la tenerezza paterna e’ fonte potenziale di arrichimento e pienezza del rapporto”. Dunque, laddove ci sono i “padri materni” sono elementi nuovi e positivi; il problema è loro numero. Esiguo, ancora. Almeno a giudicare dai dati Istat sulla condivisione del lavoro domestico nelle famiglie italiane: tre ore e trentanove minuti il tempo dedicato all’accudimento della famiglia da parte della mamma e un’ora e quattordici minuti il tempo dedicato dai padri.  Eppure, sono molti a cominciare degli scrittori, a dichiararsi innamorati del mestiere di genitore, come Sandro Veronesi, che nei suoi libri continua ad esplorare il tema della paternità, ha raccontato di essersi occupato in prima persona dei suoi quattro figli. Dividendo cioè con loro quella quotidianità che e’ il vero linguaggio tra grandi e piccoli. Padri-scrittori che con coraggio hanno descritto il loro condimento verso “figli diversi”, come Gianluca Nicoletti e il suo ragazzo autistico e Dario Fani e il suo bimbo down.
Qual e’ allora la realtà?
Una via di mezzo tra i dati del Istat e l’ esaltazione di una figura “nuova” che per ora però è presente soltanto in certi ambienti. C’è una contraddizione tra il desiderio dei padri di esserci e la condivisione domestica che resta ancora molto parziale, in un con testo sociale dove molti si sentono. Ancora schiacciati dal logiche tradizionali, come dal disapprovazione aziendale per chi prende il congedo di paternità.
Sono i figli invece a raccontare i loro “padri materni” nel saggio. ” Diventare grandi” dello psicoanalista Gustavo Pietropolli Charmet.
Scrivi lo stesso autore il riflesso di queste nuove figure maschili lo vedo nelle descrizioni degli adolescenti che ascolto. I ragazzi quando i padri ci sono, perché non è scontato, li descrivono come genitori coinvolti vicini che non sentono il bisogno di mostrarsi virili, ma hanno invece una attesa narcisistica verso i successi dei figli, i quali nonostante tutto, sembrano trarne indubbi vantaggi da questo tipo di paternità senza conflitti.

In Italia i maschi cominciano adesso a comprendere che essere genitori non è una questione di genere, ma di disponibilità, e dunque si può essere intercambiabili.

ACCUDIRE I FIGLI NON VUOL DIRE PERDERE L’AUTOREVOLEZZA

di Chiara Saraceno (sociologa e ricercatrice della famiglia)

La lenta avanzata dei padri accudenti e’ un fenomeno di incoraggiare senza ambivalenze.
Si tratta di pariopportunità tra padri e madri in entrambe le direzioni: per far si che le madri possono conciliare meglio lavoro di cura e lavoro per il mercato, e magari anche un po di tempo per sé, ma anche perché venga riconosciuta la legittimità del desiderio di molti padri di avere più tempo per i figli, di sperimentare l’ intensità relazionale che si dà nella cura di un bambino piccolo, una intensità che pone le fondamenta per una continuità di rapporto intimamente accudente anche negli anni successivi della crescita. E perché i bambini piccoli possono avere a disposizione sia il padre sia la madre nei primi anni della crescita.
Nei paesi nordici, in particolare Svezia e Norvegia, che pure hanno una disponibilità elevata di servizi di buona qualità per la prima infanzia e dove il tempo pieno scolastico è la norma perché s’investe multo sui bambini, dagli anni anni Novanta c’è stato anche un forte sostegno a che entrambi i genitori si prendessero del tempo per stare con i figli soprattutto nel primo anno di vita. Per questo hanno rafforzato sia la durata sia l’indennità del congedo genitoriale riservando una quota di almeno due mesi ai padri. Anche se neppure quei paesi c’è totale parità nelle cure domestiche nel mercato del lavoro, essere un padre accudente non solo alla sera o nel week end, ma anche a pieno tempo per un certo periodo fa parte della normalità come essere una madre accudente.
Un fatto del tutto normale che si scrive nel proprio curriculum senza timore di venir considerati poco affidabili, che ha effetti di lungo periodo sulla relazione padri-figli.
Le ricerche effettuate su padri svedesi e norvegesi, infatti, segnalano che i padri che hanno usufruito del congedo sono più presenti nella cura dei figli anche negli anni successivi.
I bambini, gli adolescenti e giovani svedesi norvegesi che hanno avuto non solo una madre ma un padre dente non sono per questo più dipendenti delle cure, materne e paterne dei loro coetanei, inclusa la maggioranza di quelli italiani, i cui padri non sono stati ad alta intensità di cura. Al contrario in quei paesi i bambini sono più autonomi, tanto meno in quei paesi sorgono maggiori problemi di identità maschile o femminile, né nei genitori né nei loro figli.
Un padre, come per altro una madre, accudente non è automaticamente permissivo, debole e in fuga delle proprie responsabilità, come si la cura escludesse autorevolezza e viceversa punto sulla base di questo assunto,sbagliato, generazioni di padri (non tutti, ovviamente) si sono sentiti autorizzati a delegare in toto alle madri l’attenzione per i bisogni relazionali dei figli, anche oltre infanzia, salvo stupirsi di dispiacersi della mancanza di confidenza quando l’avrebbero desiderata, o tel dura rivendicazione di molte madri del proprio diritto non negoziabile ad avere l’esclusività dell’ affidamento dei figli in caso di separazione.
La diffusione di una disponibilità all’accudimento anche da parte dei padri esprime una modifica a modelli di ruolo maschile consolidati, analoga a quella che a partire dall 800 assegnò alle madri non solo compiti riproduttivi ma di accudimento intensivo effettivo dei figli, rilegando il padrino ruolo di autorità distanti. Se ciò costituì a lungo una gabbia per le madri, rappresento per loro e per i loro figli anche la conquista del valore della cura i della relazionalità affettiva come ingredienti importanti del rapporto madre-figli e della formazione della personalità.
Oggi i padri accidenti compiono il processo iniziato allora, rivendicando anche alla paternità il diritto a queste dimensioni.

Psicoanalisi e società

Survive-With-a-Narcissistic-Mother-Step

In questa sezione vorrei proporvi delle suggestioni di “Psicoanalisi e Società”.
Delle riflessioni profonde e moderne di grandi autori italiani e non, di impostazioni culturali, filosofiche e psicologiche diverse nell intento di mostrarvi come la psicoanalisi sia una chiave di lettura di fenomeni attuali che investono la società 2.0.
Nello specifico l articolo ” Le mamme narciso”di M. Recalcati tratta di una radicale trasformazione  che sta  investendo sempre più l’ istituto materno,  ossia si vive meno per i propri figli e più per rivendicare la propria autonomia.
Vediamo come cambia un’immagine secolare.

Sabina Scattola

 

Ciao figlio, è il tempo della mamma Narciso.
Dal sacrificio senza limiti alla donna coccodrillo così cambia la figura materna.

Nella cultura patriarcale la madre era sintomaticamente destinata a sacrificarsi per i suoi figli e per la sua famiglia, era la madre della disponibilità totale, dell’amore senza limiti. I suoi grandi seni condensavano un destino: essere fatta per accudire e nutrire la vita. Questa rappresentazione della maternità nascondeva spesso un’ombra maligna: la madre del sacrificio era anche la madre che tratteneva i figli presso di sé, che chiedeva loro, in cambio della propria abnegazione, una fedeltà eterna. E’ per questa ragione che F.Fornari aveva a suo tempo suggerito che i grandi regimi totalitari non fossero tanto delle aberrazioni del potere del padre, ma “un’inondazione del codice materno”, una sorta di maternage melanconico e spaventoso.
Sicurezza e l’accudimento perpetuo in cambio della libertà. Sulla stessa linea di pensiero J. Lacan aveva una volta descritto il desiderio della madre come la bocca spalancata di un coccodrillo,insaziabile e pronta a divorare il suo frutto. Era una rappresentazione che contrastava volutamente le versioni più idilliache e idealizzate della madre.
Quello che Lacan intendeva segnalare e’ che in ogni madre, anche in quella più amorevole, che nella struttura stessa del desiderio della madre, troviamo una spinta cannibalica (inconscia) ad incorporare il proprio figlio.
È l’ombra scura del sacrificio materno che nella cultura patriarcale costituiva un binomio inossidabile con la figura, altrettanto infernale, del padre padrone. Era la patologia più frequente del materno:  trasfigurare la cura per la vita che cresce in una gabbia dorata che non permetteva alcuna possibilità di separazione.
Il nostro tempo ci confronta con una radicale trasformazione di questa rappresentazione della madre:  ne’ bocca di coccodrillo ne’ ragnatela adesiva ne’ sacrificio masochistico ne’ elogio della mortificazione di sé.  Alla madre della abnegazione si e’ sostituita una nuova figura della madre che potremo definire “narcisistica”. Si tratta di una madre che non vive per i propri figli, ma che vuole rivendicare la propria assoluta libertà e autonomia dai propri figli.
L’ultimo capolavoro del giovanissimo e geniale regista canadese Xavier Dolan titolato “Mommy” (2014) mostra il passaggio delicatissimo tra l una e l altra di queste rappresentazione della maternità. Per un verso la coppia madre -figlio del film assomiglia alla coppia simbiotica della patologia patriarcale della maternità: non esiste un altro mondo al di fuori di se’, non esiste un terzo, non esiste padre, non esistono uomini, non esiste nulla. E’ una negazione chi è il regista trasferisce abilmente in una opposizione tecnica traumatica: le riprese a 3 quarti, l’assenza di fuori campo, come ha fatto notare recentemente Andrea Bellavita, evidenzia un mondo che non conosce alterità, che non ha alcun “fuori” rispetto al carattere profondamente incestuoso di questa coppia. Ma è l’atteggiamento finale della madre che risulta inedito rispetto alla rappresentazione sacrificale del desiderio materno. Ella non trattiene il figlio problematico, diagnosticato “iperattivo”, ma, seppur contradditoriamente, vorrebbe liberarsene. Il suo desiderio non è più quello rappresentato dalla madre coccodrillo e dalla sua spinta fagocitante, ma quello di risultare, come afferma nella battuta finale, “vincente su tutta la linea”; per questo decide di affidare il figlio intrattabile ad una Legge folle che prescrive il suo internamento forzato.
Madre descritta in Mommy  rappresenta il doppio volto della patologia della maternità: da una parte l’eccessiva presenza, l’assenza di distanza, il cannibalismo divorante, dall’altra l’indifferenza, l’assenza di amore, la lontananza, l’esaltazione narcisistico di se stessa. Il problema della madre narcisistica non e’ più infatti quello di separarsi dai propri figli ma di doverli accudire; non è più quello di abolirsi masochisticamente come donna nella madre, ma vivere il proprio diventare madre come come un attentato, un handicap, anche sociale, al proprio essere donna. La spinta divoratrice della madre coccodrillo si è trasfigurata nell’ ossessione per la propria libertà e per la propria immagine che la maternità rischia di limitare o di deturpare. Il figlio non e’ una proprietà che viene rivendicata, ma un peso dal quale bisogna sgravarsi al più presto. Si tratta di una inedita patologia narcisistica del materno.
Si tratta di donne che vivono innanzitutto per la loro carriera e solo secondariamente e senza grande trasporto per i loro figli. In  gioco e’ la rappresentazione inedita di una madre che rifiuta giustamente il prezzo del sacrificio  rivendicando il diritto di una propria passione capace di oltrepassare l’esistenza dei figli e la necessità esclusiva del loro accudimento. È il dilemma di molte madri di oggi. Il problema però non consiste affatto in quella rivendicazione legittima e salutare anche per gli stessi figli, ma nell incapacità di trasmettere ai propri figli la possibilità dell amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduto quella connessione che deve poter unire generativa mente l’ essere madre all essere donna. Se c’è stato un tempo quello della cultura patriarcale dove la madre tendeva ad uccidere la donna, adesso il rischio è l’opposto; e’ quello che la donna possa sopprimere la madre.
M. Recalcati, La Repubblica 28 febbraio 2015